Tre mesi in Sud-est asiatico: 7000 km con l’ernia del disco

Il mio viaggio nel Sud-est asiatico

A Fiumicino è una fredda mattina di novembre: è ora di imbarcarsi con destinazione Sud-Est asiatico. Uno scalo a Kuwait City e un altro volo per Bangkok. La capitale thailandese è un hub intercontinentale molto trafficato, da cui spesso arrivano e ripartono i viaggiatori in quella parte di Asia. Comprare un biglietto andata e ritorno dallo stesso aeroporto conviene sempre, anche se può limitare un po’ gli spostamenti. “In fondo avrei potuto spostare il biglietto in caso volessi trattenermi ancora”, pensai. Alla fine, quasi tre mesi dopo, non ve n’è stato bisogno e ripartii da Bangkok, come a chiudere un cerchio.

Nel mezzo più di 7000 chilometri macinati in bus, barca, scooter, bici e taxi con un solo volo (da Phuket a Ho Chi Minh City) e tante miglia percorse a piedi. Un viaggio straordinario, dall’antico regno di Thailandia ai tre Paesi della vecchia Indocina francese, tra resti imponenti di antiche civiltà, oggi patrimonio Unesco, e paradisi naturali, dalle isole thailandesi alle acque del Mekong alle cascate e grotte laotiane.

Non avevo pianificato nulla, se non una vaga idea dei posti che assolutamente avrei voluto visitare. Tutto era lasciato al caso, o meglio, alle sensazioni, agli incontri e ai desideri dell’animo che di volta in volta si presentavano. Gli unici punti fermi erano appunto la base di partenza e ritorno – Bangkok – e i limiti dei visti. In Thailandia potevo stare solo 30 giorni e all’aeroporto mi avrebbero potuto chiedere il volo di uscita: per questo l’unico spostamento prenotato è stato il volo Phuket-Ho Chi Minh che mi avrebbe portato in Vietnam. Un volo che avrei evitato volentieri – in questi viaggi preferisco la lentezza degli autobus e dei treni – per non rischiare, tuttavia, ho seguito le indicazioni dell’ambasciata: ti chiederanno il volo di uscita.

Lo stesso problema si è ripresentato prima del volo per il Vietnam: questa volta ho prenotato in aeroporto davanti al personale di terra un semplice biglietto di bus da un paesino vietnamita alla frontiera con la Cambogia per soli 10 euro.

Il resto è stata tutta un’avventura per le strade, i mari e i fiumi di queste terre fantastiche. La maggior parte dei chilometri – ben 5460, più di quattro volte l’Italia – li ho macinati sui bus, dai comodi pullman thailandesi agli autobus locali laotiani. La distanza, tuttavia, è solo una variabile del tempo che si impiega a percorrerla. Per tragitti di 200 chilometri ci si può mettere anche nove ore, per distanze superiori si arriva alle 18-20 ore, per questo spesso è meglio fare tappe intermedie o optare per i bus notturni, sperando che abbiano i letti al posto dei sedili. Nel Laos non esistono autostrade, c’è solo una statale disconnessa che percorre il Paese da Nord a Sud, attraversando paesini e villaggi, dove ci si muove solo con bus locali. Un’esperienza indimenticabile, immersi in un’umanità colorata e genuina, tra sedie aggiunte nel corridoio e un infinito via vai di beni e animali. Il bus si ferma su richiesta, praticamente ovunque. E nelle stazioni degli autobus può attendere anche un’ora un carico di pietre o patate in arrivo.

Nei mari thailandesi ho percorso all’incirca 750 chilometri con traghetti veloci ma anche nella stiva di una lenta e antica imbarcazione in legno, usata nei tragitti notturni per il trasporto merci. Senza contare le tante escursioni in giornata sulle tipiche barche thailandesi a lunga coda nelle piccole isole e baie. Ho attraversato il grande Mekong, con le sue placide acque del delta in Vietnam e le ripide delle 4000 isole nel Laos. Su una piccola canoa mi sono addentrato, non senza timore, nella magnifica grotta di Kong Lor, otto chilometri di un percorso fluviale che attraversa una montagna da una parte all’altra e sbuca in un paesaggio da fiaba.

Impossibile dimenticare gli oltre 560 km in scooter nel cuore del Laos, specie quando si ha a che fare con una dolorosissima ernia discale. Da Pakse iniza e finisce il famoso loop: si lascia tutto alla base, si noleggia uno scooter e in due o tre giorni si gira l’Altopiano del Bolevan, tra cascate, villaggi etnici, boschi e piantagioni di caffè. Si dorme in spartane guest house sperdute in remoti villaggi. Il secondo loop parte da Thakhek ma, a causa dell’ernia, decido di andare dritto alla grotta di Kong Lor. Peccato che avessi calcolato solo la distanza in linea d’area – 60 km – e non i 180 che effettivamente sono stati necessari per raggiungerla. L’impresa fu epica, sia perché eravamo in due sullo scooter e su strade dissestate, sia perché abbiamo dovuto attraversato le gelide montagne senza essere equipaggiati: arrivammo di notte e dovemmo pernottare in una guest house fuori dalla grotta. Ma ne valse assolutamente la pena.

Nonostante la colonna vertebrale gridasse pietà, non mi sono mai perso d’animo. Tra dosi massicce di antidolorifici e qualche visita negli ospedali, ho continuato il mio viaggio fino alla fine, senza rinunciare a tutto quello che volevo vedere: ad altri giri in scooter, ai lunghissimi viaggi in bus, alle passeggiate in bici e agli immancabili tuc tuc che mi hanno scorrazzato in ogni dove. Senza contare i chilometri percorsi a piedi, in città o nella giungla, sui monti o in pianura. La meraviglia, la stessa che ha spinto i filosofi greci a indagare sul cosmo e sull’uomo, è forse stato il miglior palliativo agli acciacchi.

A distanza di sei mesi, grazie alle cure sul suolo natìo, la colonna vertebrale è tornata più o meno a posto. Passato il dolore, rimane il dolce ricordo di un viaggio incredibile e la voglia – sempre desta – di ripartire.

 

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